La famiglia Roccabruna era una delle più antiche famiglie nobili del Trentino; documentata nella linea di Fornace sin dal XII secolo con Gandolfino I, sarà poi sempre presente nella storia locale fino al XVIII secolo.
L’origine del nome sembra sia da ricondurre ad uno scuro castello di pietre porfiriche esistito nel perginese a Sud-Est di Nogarè, dove ancor oggi uno spuntone roccioso chiamato localmente le Ròche ne conserva memoria. Solo nel 1189, tuttavia, compare per la prima volta il predicato de Roccabruna in un documento relativo ad un contenzioso fra il vescovo di Trento Corrado e i conti di Appiano, dove viene citato un Iacopino I de Roccabruna proprietario di beni in Caldaro.
Noti per le ingenti ricchezze e le numerose investiture, nel corso del Medioevo i Roccabruna si trasferirono dall’avito feudo nella città di Trento; qui all’inizio del XVI secolo, come documenta un elenco degli abitanti della città datato 1526, la loro presenza è attestata in varie contrade.
Nel corso del Cinquecento il canonico Gerolamo II Roccabruna (qui ritratto nella cappella del palazzo nel 1588), animato da una decisa volontà di rifondare le fortune della casata indebolita da larga discendenza, provvide ad accentrare su di sè e sul fratello Giacomo IV varie proprietà e titoli. Figlio di Baldassare e Caterina Caldés, Gerolamo II, nato il 21 luglio 1525, fu senza dubbio il personaggio più in vista della famiglia. Sebbene le notizie sulla sua vita siano scarse, lo sappiamo collaboratore dei principi vescovi Madruzzo che in più occasioni gli riconobbero benefici e onori fino al conferimento della dignità di Arcidiacono nel Capitolo della cattedrale di Trento.
Nel 1548 accompagna il cardinale Cristoforo in Spagna per le nozze fra il principe Massimiliano d’Asburgo e la cugina Maria, figlia di Carlo V; nel 1568 è inviato a Roma da Ludovico Madruzzo per la questione della sovranità sul Principato e nel 1582 con quest’ultimo alla Dieta di Augusta; al 1549 risale invece l’inizio della sua carriera ecclesiastica con la nomina a chierico e l’assegnazione della parrocchiale di San Martino, circostanza in cui Cristoforo Madruzzo lo ebbe a qualificare come “suo famigliare”. Canonico della cattedrale nel 1551 e successivamente Sommo scolastico, Gerolamo ottenne nel corso del tempo le prebende di varie parrocchie trentine e infine l’elezione a Canonico nel Capitolo della cattedrale di Bressanone.
A ulteriore conferma del rapporto di fiducia con la famiglia Madruzzo depone il fatto che in più occasioni Gerolamo è indicato come maestro di casa e consigliere (oeconomus et consiliarius) dei cardinali Cristoforo e Ludovico. Testimonia ancor oggi il legame molto stretto tra la famiglia Roccabruna e quella dei principi vescovi l’imponente stemma madruzziano che orna la facciata del palazzo realizzato in quel torno di tempo su commissione del Canonico.
In un’epoca che tendeva alla nobilitazione per architecturam, Gerolamo, coll’intento di procurare alla famiglia una sede prestigiosa, acquisì in fasi successive tra il 1557 e il 1559 una serie di vecchi edifici del quartiere di Borgo Nuovo che accorpò in un unico palazzo. L’intervento del Canonico ben si inseriva in quel processo di rinnovamento urbano che fu uno degli effetti più evidenti del clima politico-culturale maturato negli anni del Concilio di Trento. Il compimento dell’opera dovrebbe collocarsi fra la data dell’ultima acquisizione e la fine del 1562, poichè con il gennaio 1563 il palazzo fu nella disponibilità per più di un anno del Conte di Luna, Claudio Fernandez de Quiñones, oratore del re di Spagna presso il Concilio.
A salvaguardia dell’unità del patrimonio, l’Arcidiacono, alla morte avvenuta il 13 giugno 1599, lasciò in fedecommesso perpetuo le sue ricchezze, compreso il palazzo di Via SS. Trinità, alla famiglia, che ne rimase proprietaria fino al 17 agosto 1735 quando, morto l’ultimo dei Roccabruna, Giacomo VIII, questo passò ai nipoti, figli della sorella Anna Caterina e di Giacomo Gaudenti. Dopo una ventennale lite giudiziaria Palazzo Roccabruna entrò definitivamente in possesso della famiglia Gaudenti, che dei Roccabruna assunse anche il cognome inquartandone lo stemma.
E proprio i Gaudenti-Roccabruna, baroni del Sacro Romano Impero dal 1783, vendettero nel 1824 l’edificio a Tommaso Rungg privandolo, però, dei quadri di rilievo tra cui i celebri ritratti dei Madruzzo opera del Tiziano e del Moroni. Nel 1835 a loro volta i Rungg vendettero il Palazzo ai Sardagna von Hohenstein, che lo tennero, provvedendo a restaurarlo dai guasti della Prima Guerra mondiale, fino al 1935 quando lo cedettero a Giuseppe Prada.
E della famiglia Prada rimase fino al 1988 quando, in pessimo stato di conservazione, fu nuovamente venduto. Solo dopo alcuni altri passaggi di proprietà l’edificio, messo al centro di un minuzioso intervento di recupero che ne ha reintegrato l’originale valore architettonico, divenne nel febbraio 2002 parte importante del patrimonio immobiliare della Camera di Commercio I.A.A. di Trento.
Arte ed architettura
Edificio della seconda metà del XVI secolo, Palazzo Roccabruna nasce dall’accorpamento di unità abitative preesistenti, ristrutturate e rifunzionalizzate entro un complesso formale organico e conforme al gusto dell’epoca. L’intervento si inserisce in quel processo di rinnovamento urbano maturato nel clima politico-culturale che prepara il Concilio di Trento, evento cruciale per la storia mondiale e prepotente impulso alla modernizzazione della città.
Gli effetti di tale processo si avvertono in particolare nel quartiere di Borgo Nuovo e nell’area prospiciente le vie Calepina e SS. Trinità, che proprio in questi anni assumono i caratteri di spazio urbano appartato, dedicato prevalentemente a funzioni residenziali. Senza alterare l’impianto medievale, ma associando lotti contigui, si giunge ad una ridefinizione di più vasti complessi edificiali all’interno delle preesistenze murarie, il tutto composto dietro facciate uniche ispirate ai canoni di simmetria e proporzione tipici del Rinascimento.
In questo contesto via SS. Trinità - che presenta ancor oggi le facciate di molti edifici del passato: quella dell’omonima Chiesa, della casa-torre Conci, della casa murata del Massarello - pur avendo perso uno dei più ragguardevoli esempi di architettura cinquecentesca, Palazzo a Prato, ne presenta ancora un altro, non meno pregevole, Palazzo Roccabruna.
Sul piano artistico il Palazzo non ha finora trovato un’organica rappresentazione tra gli edifici della città. Esso non manca tuttavia di offrire spunti di notevole interesse soprattutto in ambito di storia dell’arte locale. Il primo è senza dubbio rappresentato dalla facciata Nord: essa risolve in un’armonica composizione, articolata sul portale, la diversa organizzazione delle masse laterali. La simmetria dei due sistemi è rotta dalla distribuzione orizzontale delle aperture, disposte su tre file a sinistra del portale e su due a destra. Sul piano verticale la struttura è scandita da tre ordini di finestre incorniciate da pietra bianca e, nei primi due piani, lavorate a bugnato. Collegate da una fascia in pietra corrente a livello del davanzale, le aperture del piano nobile sono fornite di un’incorniciatura ad orecchie, che si ripete su quelle del mezzanino. Caratteristiche queste che rappresentano un elemento di assoluta originalità nel panorama degli edifici cittadini.
Anche il portale, elemento centrale della composizione, è una realizzazione di notevole interesse: in un efficace bugnato a rilievo, esso non si presenta allineato al filo di costruzione, ma sensibilmente aggettante, fornendo così la base d’appoggio per l’elegante balcone con balaustra in pietra che lo sormonta. Uno stemma Roccabruna con campo dello scudo alla torre, merlata alla ghibellina, campeggia sull’archivolto (foto a sinistra). A sovrastare il balcone, sullo stesso asse, spicca l’imponente stemma del cardinale Cristoforo Madruzzo; il cappello cardinalizio accompagna uno scudo accartocciato, abbracciato da nappe e cimato da croce semplice trifogliata; su una parte dello scudo figurano inquartate l’aquila del Principato tridentino, l’agnello pasquale e l’aquila accollata da pastorale del Principato vescovile brixinense; sull’altra compaiono l’arme della famiglia Madruzzo e in punta dello scudo l’impresa del cardinale Cristoforo, la Fenice sopra il suo rogo, fissante un sole splendente; più in basso sotto il mascherone un cartiglio con il motto celebrativo “tu decus omne meum” (“in te è tutto il mio onore”), omaggio del committente del palazzo, il canonico Gerolamo II Roccabruna, al potente protettore.
In alto a definire elegantemente il profilo dell’edificio una gronda lignea a mensoloni decorata con elementi floreali a rilievo.
L’ingresso è fiancheggiato da panche di pietra e mostra sulla destra l’emblema personale del canonico Gerolamo II Roccabruna: una torre merlata contornata dalle lettere H, R, C, T, Hieronimus Roccabruna canonicus tridentinus.
Sul piano dei modelli formali la facciata trova echi abbastanza puntuali in un palazzo costruito a Piacenza da Jacopo Barozzi detto il Vignola per il maggiordomo dei Farnese, Ludovico Todesco. L’ipotesi che la dimora dei Roccabruna riverberi soluzioni formali di derivazione vignolesca acquista maggior verosimiglianza non appena si considerino le relazioni intercorrenti tra il Vignola e i Farnese e tra questi e l’ambito del cardinale Cristoforo Madruzzo.
Attraverso il portale si accede ad un lungo androne che conduce alla loggia sul retro: esso realizza l’asse orizzontale attorno cui è giocata l’organizzazione interna degli spazi con efficace parallelismo rispetto al sistema portale-balcone-stemma cardinalizio che sviluppa l’asse verticale attorno a cui si articola il disegno della facciata. Diviso in due ambienti di larghezza diversa e leggermente disassati, l’androne presenta, nel primo tratto, un ampio avvolto in stucco, plasticamente risolto in un incrocio di membrature a rilievo con decorazioni ad ovuli, palmette e rosette. Nelle lunette laterali sono inseriti i busti di quattordici imperatori romani disposti, da sinistra a destra, nell’ordine cronologico di successione: da Giulio Cesare, che nonostante potesse vantare il titolo di imperator, non fu storicamente il fondatore dell’impero, fino a Marco Ulpio Traiano, il cui regno segna il momento di massima espansione del mondo romano. Nella parte restante l’androne è privo di decorazioni ed è ricoperto da un semplice avvolto con le consuete lunette perimetrali ad unghia.
Sulla sinistra dell’atrio un portale rinascimentale immette in un andito dove si notano altri tre eleganti portali, attraverso quello sovrastato da un imponente scudo con campo vuoto, inserito in una ghirlanda intrecciata di foglie di quercia, si accede ad una serie di revolti, identificati oggi con nomi moderni.
Il primo, detto Revolto Grande, è coperto da volta unghiata con lieve nervatura a creare un piacevole movimento; l’apparato decorativo è arricchito da un lacunare posto al centro del soffitto, di ridotta profondità e forma rettangolare. Sulla parete di fondo rimane un lacerto di affresco nel quale si riconosce un fregio a grottesca vegetale che oltrepassa il limite del muro. Il riaffiorare dello stesso motivo nel piccolo vano attiguo all’androne, fa presumere che si tratti di una più ampia decorazione, probabilmente preesistente alla sistemazione cinquecentesca del palazzo.
Un portale con stemma Roccabruna mette in comunicazione con la sala successiva, detta il Revolto dell’Ovale, dalla forma del lacunare che decora la sommità della volta.
Procedendo verso destra si entra nell’ultimo ambiente, il Revolto del Caminetto, anch’esso come il precedente contiguo al giardino e caratterizzato dalla presenza di un camino con semplice cornice lineare in pietra bianca. Oltre alle già note lunette ad unghia, la volta mostra un’articolata geometria di cassettoni con differenti dimensioni. Attraverso la porta di fondo si ritorna nell’androne principale dove, sulla destra, si trova l’accesso allo scalone per il piano nobile.
Salendo le rampe, delimitate da pilastri a capitello dorico, si arriva al primo piano. Qui sulla sinistra si apre quella che senza dubbio è la sala d’onore di Palazzo Roccabruna, la Sala del Conte di Luna così chiamata in onore dell’illustre ospite che vi soggiornò nelle ultime fasi del Concilio di Trento.
Ambasciatore e oratore del re di Spagna Filippo II, il Conte di Luna, Claudio Fernandez de Quiñones, prese in affitto il palazzo per cinquanta scudi al mese a partire dal 1° gennaio 1563 fino al 1° aprile 1563, come indicato nel contratto stipulato con il canonico Gerolamo. Il documento precisa l’impegno del Canonico a dare “quattro letti forniti honoratamente con moschetti over trabache e [...] altri tre senza” nonché arredi e suppellettili, rimarcando il fatto che per ogni altra necessità il Conte “sii obbligato a farsi del suo”.
Giunto a Trento nel giorno di Pasqua del 1563, di ritorno dalla Dieta di Francoforte, da subito egli si distinse nella disputa per le precedenze, non tollerando che alcuno potesse stargli davanti nelle cerimonie ufficiali, feste e processioni. A questo proposito il Mariani ricorda la sua curiosa posizione durante le sedute del Concilio, per la quale egli andò tanto famoso da diventare il personaggio più facilmente identificabile nei quadri dedicati all’evento: “Questo, - dice lo storico - per contesa nata di precedenza, con i Legati del Re Christianissimo [scil. il re di Francia], s’andò porre in mezzo al Tempio appresso dove sedeva il Secretario del Sacro Concilio.” Un atteggiamento che in molte occasioni non mancò di suscitare notevole imbarazzo: durante la processione del Corpus Domini se ne andò infuriato per non essere riuscito a porsi in testa al corteo; durante la festa di San Pietro, volendo essere incensato per primo, indusse i responsabili della cerimonia a non incensare nessuno per non suscitare malumori e proteste fra gli altri dignitari presenti.
A ben ritrarre il personaggio resta l’efficace inciso dello storico del Concilio, Paolo Sarpi che di lui dice che era suo solito “d’aggionger sempre difficoltà a quelle che da altri eran proposte”. Ne completa l’immagine la notizia relativa alla moltitudine di oggetti, anche di grande pregio, che egli portò con sè a Trento. Tra una gran quantità di argenterie, un’ampia raccolta di volumi e una moltitudine di stoffe e damaschi spicca la collezione di 11 arazzi tessuti ad animali su sfondo vegetale, che probabilmente ornarono la sala del piano nobile e che oggi sono parte del tesoro della cattedrale di Trento.
Il Conte soggiornò in casa Roccabruna ben oltre il periodo indicato sul contratto e addirittura oltre la fine del Concilio, determinato com’era a non fare rientro in patria dopo il fallimento collezionato nel tentativo di rinviare la chiusura dei lavori. Ma il 28 dicembre del 1563, per aver ecceduto nei balli e nei festeggiamenti natalizi, egli, sentitosi male, morì - sembra - nel palazzo che fino ad allora lo aveva ospitato. Sepolto nel vecchio convento di San Bernardino, lasciò numerosi creditori, tra cui lo stesso Canonico, onorati con la sua ricca collezione di bottoni d’oro.
Per l’incarico svolto presso il Concilio, il Conte di Luna fu sicuramente al centro della vita politico-religiosa dell’epoca e con lui lo fu senza dubbio anche il Palazzo che lo ospitava. Analogamente a quanto il Sarpi ci dice avvenisse in casa degli ambasciatori francesi, dove si faceva “convito di prelati”, è lecito immaginare che anche in casa dell’ambasciatore del Re Cattolico si tenessero conciliaboli in cui si definivano le linee di comportamento nelle riunioni del Sacro Concilio. Non v’è dubbio che la sala del piano nobile di Palazzo Roccabruna, con il suo vasto sistema decorativo, sia stata l’ambiente più adatto ad ospitare simili incontri (vedi foto seguente).
Fin dal portale d’ingresso essa dichiara la propria funzione di rappresentanza: uno stemma Madruzzo accartocciato e sormontato da corona di perle sporge sopra l’architrave.
All’interno (foto precedente) si presenta un complesso apparato decorativo che riveste completamente pareti e soffitto. Nella fascia inferiore, ad altezza delle finestre e delle porte, una decorazione ad encausto moltiplica ripetitivamente un modulo con l’impresa del canonico Gerolamo II Roccabruna: un sole giallo, tradizionalmente raffigurato con sembianza di volto umano, e un eliotropio fiorito con il motto Nec sorte movebor “Neppure la sorte mi potrà distogliere (sott. dalla mia vocazione)”; le due figure, composte su croci nere, si alternano ritmicamente senza soluzione di continuità, e il motto, enigmaticamente espresso dalle iniziali N, S, M, risalta sul fondo bianco dei fiori. Una banda gialla segna il margine della decorazione, completata in basso da una fitta sequenza di nappe a suggerire un finto panneggio.
Nella fascia superiore, più alta delle finestre, sono raffigurati ad affresco tredici pannelli rettangolari intercalati da cariatidi e incorniciati da ghirlande di foglie e frutta su modello di quelle fogoliniane del refettorio del Castello del Buonconsiglio. Il centro di ogni pannello, composto su una trama dipinta a mosaico, contiene uno scudo con lo stemma di varie famiglie trentine imparentate con i Roccabruna: si notano quelli a Prato, Thun, Caldés, e Saracini. Attorno allo scudo grottesche con animali chimerici, figure teriomorfe e girali vegetali, ispirati alle decorazioni raffaellesche della Sala Borgia in Vaticano.
A chiudere le pareti un fregio continuo, in parte mutilo, con creature fantastiche, eliotropi, soli, alternanti a lettere capitali.
Tali lettere, secondo il gusto rinascimentale, costituiscono un criptogramma, cioè una frase cifrata. Si è congetturato - sulla base dell’epigrafe datata 1566 conservata all’interno del castello Roccabruna di Fornace in cui il Canonico viene definito consiliarius et oeconomus (“consigliere e maestro di casa”) dei Madruzzo - che il criptogramma celi una frase celebrativa del ruolo di Gerolamo II Roccabruna all’interno dell’entourage del cardinale Cristoforo, suo protettore. Non è un caso infatti che lo stemma del Cardinale campeggi sulla facciata del Palazzo con la dedica Tu decus omne meum (“In te sta tutto il mio onore”) e che sul portale d’ingresso della sala faccia bella mostra di sè uno stemma della nobile famiglia di principi-vescovi. Le lettere superstiti (RN, OS, D, R, C) ci consentono di ipotizzare almeno un parte di quello che doveva essere il testo cifrato contenuto nell'estesa lacuna del fregio: [Hieronymus] R[ochabru]N[a] [Consiliarius] O[economu]S D[omini] R[everendissimi] C[ardinalis Christophori Madrucii] ovvero “Gerolamo Roccabruna, consigliere (e) maestro di casa del reverendissimo signor cardinale Cristoforo Madruzzo”.
Infine, conferisce monumentalità alla sala un imponente caminetto rinascimentale sorretto da pilastri a volute, decorate a scaglia. Al di sopra oggi campeggia uno stemma Sardagna risalente al XIX secolo, epoca in cui il Palazzo divenne proprietà della famiglia. Ai lati, inserite in una cornice mutila, due figure femminili con ampio panneggio, reggono un ramo di eliotropio fiorito, avvolto da un filatterio con inciso il motto Nec sorte movebor. Sulla cornice decorata in chiaroscuro con il motivo vegetale dei pannelli, un ricciolo ospita un sole raggiante, elemento che completa l’iconografia dell’impresa canonicale. Più in alto, ad interrompere il fregio, un piccolo affresco mitologico: Perseo regge la testa mozza di Medusa sotto gli occhi delle Muse e dell’alato Pegaso che con un colpo di zoccolo fa sgorgare l'Ippocrene, la fonte da cui traggono ispirazione le Muse.
Ricopre la sala un bellissimo soffitto ligneo a cassettoni ottagonali con fioroni a rilievo: ogni lacunare, su sfondo a mosaico simile a quello dei pannelli laterali, reca un’articolata decorazione a grottesche in cui spiccano l’emblema dei Roccabruna e l’elitropio fiorito dell’impresa canonicale.
Oltre la parete a sera si apre la cappella gentilizia dedicata a San Gerolamo, protettore del Canonico. Esterna al Palazzo e costruita a ponte sopra Vicolo Gaudenti, la cappella è oggi uno dei pochi oratori cittadini che conservano un completo e raffinato apparato pittorico della seconda metà del Cinquecento.
Le pareti illustrano nella parte superiore episodi della vita del Santo; si notano in prossimità dell’ingresso: la scena dell’addomesticamento del leone, motivo tradizionale nell’iconografia geronimiana, più in là gli incarichi affidatigli da Damaso tra cui la celebre traduzione della Bibbia e più oltre il famoso sogno in cui Gerolamo è accusato di trascurare le Sacre Scritture a favore dei classici; nella parete opposta si susseguono alcune scene rappresentanti per lo più interventi miracolosi post mortem.
Nella fascia inferiore spicca il Canonico effigiato in atteggiamento devozionale all’interno di elementi architettonici e prospettici che suggeriscono un allargamento dello spazio sacro. Secondo una tradizione ottocentesca, oggi poco accreditata, il ritratto del Canonico di “bel sentimento della testa e vaghissimo colorito” sarebbe opera del Tiziano.
Il soffitto settecentesco in stucco e il bel pavimento in maioliche smaltate coeve all’edificio accompagnano felicemente l’apparato decorativo della sala.
Tornando allo scalone di ingresso uno stemma a rilievo degli Spaur annuncia l’ingresso alla Sala dei Damaschi, così indicata nell’inventario dei beni del Canonico. L’ambiente doveva anticamente presentare un rivestimento a damaschi applicato a contropareti lignee. Pregevole il soffitto a lacunari quadrati e grandi fioroni centrali risalente ad epoca posteriore alla costruzione del palazzo.
Procedendo, attraverso la porta di sinistra, si accede all’ambiente chiamato nell’inventario Camera Verde, dove un soffitto a stucchi settecentesco mostra tra sottili volute di foglie e fiori una varietà di strumenti musicali. Nella sala accanto, oggi chiamata dall’intarsio del pavimento, Sala della Stella, ancora un soffitto a stucchi con decorazione vegetale, uccelli recanti nel becco delle fronde, plastiche architetture: nel mezzo spicca una panoplia d’armi e il levriere rampante dello stemma Gaudenti; alle quattro estremità cornici ovali con vedute forse relative ai possedimenti dei committenti. Completano ed impreziosiscono il tutto delicati elementi in oro.
(Roberto Giampiccolo e Paolo Milani, "Palazzo Roccabruna: un'introduzione storica", Trento 2004)